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Contenuti pubblicati da odessa1920
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E le idee creative irrompono all’improvviso, parto di un chimismo complesso, che amo pensare ecologico. Ed è il momento in cui si aprono le porte a un flusso d’energia che spinge a gesti innovativi. L’orizzonte appare nuovamente aperto. E avverti di nuovo la giovinezza del cuore. L’audacia dell’avventura.
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Perché se il mondo esistente appare grigio, non può più essere considerato reale, non può più essere considerato vero. È come se sapessimo da sempre che un mondo vero dovrebbe essere radioso e intenso, gioioso, creativo, eccitante, bello! Non basta la mera esistenza di fatto per fare di qualcosa un mondo reale. Un mondo meramente esistente, alla luce di qualche criterio che ci abita, non può essere accettato come reale, se è grigio, amorfo, insignificante…
In tal caso, il compito di cercare e trovare un mondo più vero viene affidato proprio a ciò che sembra il suo contrario: all’immaginazione.È così che viene enunciato il principio fondamentale dell’arte: È l’immaginazione che ci porterà a un mondo vero.
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Hai una prosa tagliente, più di una lametta da barba, quando mi accusi di fondamentalismo narcisistico e melenso. E chissà che non tu abbia ragione. Ma non lo sapremo ora, come vorresti decretare. Lo sapremo alla fine. E vorrei sorprenderti, Merlino.
E intanto m’interrogo sulle cose che mi rimproveri: Perché non sento il bisogno di riflettere sul quarantennale del mitico maggio francese, né sui due enormi cataclismi in Myanmar ed in Cina, né sulla morte di Charlton Heston o di Robert Rauschenberg, il piu’ grande della pop art…
Un amore non più sognato muore – mi scrive Giovanni. E io ho capito che il fatto di continuare a sognarlo è test della vitalità dell’amore che mi abita.
Il maggio francese l’ho amato a suo tempo. Il terremoto in Cina mi fa provare pena per tutte quelle vittime. Ma il mio amore guarda altrove.
Il mio amore è un ragazzo che si fa strada tra le foglie del canneto, con le gambe rinnovate nel vigore, il petto coraggioso destato dal vento e negli occhi la fiducia dell’anima bambina.È tra le canne tenere della palude che trovo i miei amici. Tutta gente in viaggio verso il futuro. Con le pupille illuminate dalla luce di un sole nuovo.
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Un mondo in cui poter essere è un mondo in cui non si deve più fare niente. Ma si può fare ciò che si vuole, perché fare e essere coincidono. È quindi un mondo utopico. Un orizzonte verso cui ci muoviamo. Un sogno che anima il nostro cammino. Mentre continuiamo a lottare contro qualcosa, e a conquistare la nostra libertà, districandoci dalla presa che cose, messaggi e poteri hanno su di noi.
La nostra libertà è anche ora, anche qui, essere quello che si è, fare quello che siamo, seguire il desiderio e il sogno, provare una vita in cui il senso si costituisce mettendo in armonia l’esperienza e il punto centrale che dà una forma al tutto, e che è il fulcro di ciò che ci interessa, che amiamo, che ci accende la mente e ci mette in moto.
In una situazione di dispersione, apatia, stanchezza, depressione, grigiore, qualcosa accende il desiderio ricostruendo unità e presenza: la consapevolezza di essere e di avere un obiettivo. È il passaggio dall’insignificanza al senso.
Esattamente come quando uno s’innamora. -
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Oh sicuro che mi piace.
Credo che sia così per ogni persona. E in fondo non sentiamo tutti il desiderio di essere artisti della nostra vita?
Vorremmo tutticreare la nostra avventura, il romanzo della nostra vita.
O il film.
E nel nostro dialogo con noi stessi lo proiettiamo nella mente.
E allora mi piace quando faccio la regista e mi piace soprattutto quando sono ispirata.
Quando il vento gonfia le vele. E si scivola sull’acqua, reggendo il timone.
Non è sempre così, ovviamente.
Ma quando il vento… Allora…
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Anche a me, fin da bambina – soprattutto da bambina – piacciono i cavalli. Quelli degli indiani mi piacevano più di quelli dei cow boy, perché più naturali e liberi – meno soggiogati alla disciplina dell’addestramento.
Il cavallo, senza sella e redini, è sempre stato ai miei occhi un simbolo di libertà. Correre nelle praterie. Vigore ed elasticità. Nomade. Tutto sommato, senza appartenenza. Irriducibile. Cittadino di quell’altrove che non si lascia assorbire da nessun paese, gruppo, cultura. Ma desideroso di attraversarne tanti, come farebbe un esule. Vivere in luoghi diversi, parlare in più lingue, conoscere più culture.
Tutto questo è oltremodo attraente. E il nostro tempo offre la possibilità di questa esperienza a tanti. Le culture, a ben vedere, si stanno compenetrando, sono una a fianco dell’altra negli stessi luoghi.
E io dovrei rinchiudermi in una etnia, in una regione, in una confessione religiosa, in una ideologia?
I recinti diventano routine e generano noia. Pretendono di tenere nelle loro gabbie l’inquieto e inarrestabile potenziale umano, quello che si esprime nelle scoperte e nelle creazioni. E che vuole una lingua viva, generosa, audace, spregiudicata per diventare esperienza nuova. La lingua di un esule, di un nomade.
Lo sguardo di una cavalla.
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Mi sono svegliata con l’urgenza fresca della ragazzina. Subito fuori, senza lungaggini, a gustare la vita. Per esplorare il mondo ed assaggiarlo a morsi, gli occhi sgranati dalla meraviglia.
Certi giorni la vita è l’aperto. Un luogo nuovo, per mettere a fuoco, vedere meglio. Tovo l'erba, la luce, l’aria fresca.
Poi arrivano pensieri, afferrati al volo e fissati rapidamente sul quaderno che mi porto dietro. Sempre camminando. Ed è lì che vedo dove sto andando e cosa voglio davvero e sento gioia per questa storia. -
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Erano gli spazi di gioco i luoghi dei nostri sogni. Allora ne avevamo il tempo. Le nostre agende erano piene di spazi bianchi, oltre la scuola, la messa la domenica, e la visita a zia Maria il giovedì pomeriggio. Anzi, non avevamo agende. E i nostri giochi erano imprese da grandi, ma diverse: gustate per loro stesse e non in vista di qualche obiettivo. Ci piaceva essere l’architetto (con la sabbia), il pilota, il marinaio, l’alpinista, il corridore… I più grandi c’invidiavano, di certo, dato che venivano a minacciarci e a molestarci se erano nelle vicinanze. E anche questo era un segnale che noi avevamo, allora, il segreto della vita vera.
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E mi sono fermatao più volte a fotografarli, i cardi, perché sono piante che mi affascinano senza rimedio. Sarà per quella forma piena e asciutta, con gli acheni, le foglie acuminate e pungenti, o per quelle sfumature violette e azzurre che nella luce tersa dell'altitudine ti ipnotizzano. Avverto d'istinto un loro segreto potere terapeutico. Credo mi assomiglino un po'. Difficili da afferrare, l'anima fiera e libera dei pirati e - come tali - nutrono i sogni dei bambini...
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All’inizio dell’era moderna, Cartesio trovò nel “Cogito, ergo sum” la certezza di base e il criterio di verità fondamentale. In un certo senso, oggi, le pretese del padre della filosofia moderna sembrano modeste e suscitano un sorriso di benevolenza. A lui era sufficiente rendersi conto di pensare, e anche solo dubitare, per raggiungere la certezza assoluta di esistere. Oggi sembra che pensare non basti più.
Sei sicuro di esistere se non compari sullo schermo ?
Qualcuno si chiede se al di fuori di ciò che avviene in televisione o nei social esista davvero qualcosa. Peggio ancora: se le cose che si fanno, nella realtà “materiale” del mondo, guerre comprese, non si facciano che per comparire.
Il che porterebbe al paradosso che della nostra vita cerchiamo di fare un copione per uno sceneggiato. Rovesciando di 180 gradi la prospettiva tradizionale.
Sto esagerando, lo so. Ma è solo per sottolineare che, al contrario, per la crescita personale, per essere e diventare davvero ciò che siamo, la non visibilità potrebbe essere una chance decisamente migliore.
Ecco allora emergere la categoria della non visibilità come appannaggio di un’autonomia nell’essere che si sottrae agli aspetti inquinanti dello spettacolo.
Fare cose belle e buone senza che nessuno lo veda, appagati della semplice approvazione interiore, potrebbe essere lo spazio ecologico per un ritorno dall’artificiale al naturale. Per ritrovare la fonte, la presenza, l’attenzione.
La non visibilità potrebbe essere lo spazio dove poniamo domande sincere su noi stessi, sui nostri veri bisogni e desideri. La nostra vita pubblica è forse troppo satura di artificio, di spettacolo, di visibilità intenzionale perché possano risuonare dentro di noi i richiami che ci costituiscono.
La visibilità dello spettacolo non è automaticamente epifania. Questa ha forse bisogno del nascondimento. -
Che la nostra vita vera sia Altrove?
E che non facciamo che andar per mare alla ricerca della nostra Itaca?
E che i nostri gesti creativi non siano che riti di preghiera?
Caro Alberto, troppo stanca per guardare in faccia queste cose.
Proverò a morire un po’, questa notte, per rinascere al sole del mattino.
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Sai, quando ti lasci andare? Voglio dire, un pomeriggio, stesa su un prato. Quello stare lì, in ascolto delle voci della vita. E la mente vaga senza costrizioni. Senza nessuno cui dover dire qualcosa. Qualcuno che tu sai che si aspetta da te qualcosa…
Ti sembra tutto una sorta di sogno. Forse lo è. E ti sembra strano che tu sia al mondo. Voglio dire, che tu ci sia. Che tu sia qualcosa di visibile, quel tu che dici: io. Ti sembra perfino di non esserci, e che ci sia solo quello che appare nello film. E che tu, semplicemente, ti domandi: che è?
E compaiono quelle domande di cui non capisci neanche il significato, del tipo: chi sono? E che succede?
La meraviglia, e basta. Lo stupore. E anche un senso struggente di malinconia. Come se tu, semplicemente, facessi solo capolino in quella cosa che chiamiamo vita. E ti ostini lo stesso a parlare e a provarci. A provarci nel dire: io sono questo e faccio quest’altro. E cerchi di raggrumarti in qualcosa che sia una cosa. In modo da poter dire: ci sono, esisto e so che cosa sta capitando.
Sai? Quando vedi questi ragazzi, per la strada, o a scuola, o al corso per la ricerca attiva del lavoro, o anche al negozio d’abbigliamento, o dal giornalaio, o al bar... Insomma, li vedi, e, come se tu fossi già navigata, che conoscessi quello che c’è da conoscere, pensi: sono ragazzini!
Beh, lì, dopo pranzo, con i piedi sulla sedia e il caffè, beh, non ti senti un po’ così, in modo che anche di te – quale che sia la tua età adulta – dici: sono una ragazzina, sono una ragazzina. Solo una ragazzina. -
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Pensavo, durante la camminata, che sono abitata da sogni forti, che mi spingono a camminare anche in un altro senso. E avvertivo la ricchezza di questo fatto. Insomma sentivo quanto era bello essere viva, con dei desideri da realizzare e la voglia di farlo. Questo rendeva la mia vita una bella avventura. Ed ero io a inventarla.
Sentivo forte il potere dell’immaginazione che anticipa le cose creando un proprio mondo. E immaginavo che fosse come creare una rete da gettare nell’oceano della realtà, con l’intenzione di una pesca abbondante.Il mio mondo non è il mondo, ma serve per pescare nel mondo.
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Giro per la città e guardandomi attorno, mi domando: dove sto andando? e che sta capitando? Sorpresa, una sorta di meraviglia.
Non mi sono ancora abituata al fatto che sono viva.
Incontro Sandro, in Lungadige San Giorgio, e mi rattrista vederlo sofferente. Vengo a sapere che è per pene d’amore. Una storia che si trascina altalenandosi. E la domanda affiora: dove va la vita? Cosa stiamo facendo?
In tangenziale sono a bocca aperta davanti ai campi che costeggiano la linea d’asfalto, alla linea ferroviaria, alla velocità del mio automezzo… Penso al progresso, alla medicina, alla storia umana. Mi viene in testa l’aria delle Quattro Stagioni di Vivaldi, e la domanda ritorna: dove stiamo andando? Cosa ho da fare?
Penso agli uomini, agli amori, al teatro, ai libri che mi hanno nutrito, alle camminate tra le colline, al respiro consapevole, alla mia infanzia in montagna, al mercato la domenica mattina, alla cena di classe, alla malattia, alla salute… mi vengono in mente tutti i sogni, anzi, lo stesso mio sognare, quel vagare, pupille in alto, nell’universo di ciò che ho desiderato, di ciò che ho cercato di identificare nel pozzo profondo del mio desiderio. Che ci sto a fare? Cosa desidero davvero? Cosa è in grado di rendermi me stessa?
Penso ai giochi dei bambini, allo sguardo di Massimo qunado mi ha detto ti amo, alla verve che fluisce nelle cene con gli amici, alle serate al castello dopo gli spettacoli.
Sono adulta e ancora non mi sono abituata al fatto di essere viva. E non è sgomento, ma sorpresa. Una sorta di meraviglia.
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Si può stupire, si può rasserenare, si può anche scuotere, pungolare… ma la vera provocazione sta nel paradosso che una donna adulta voglia continuare a giocare come una bambina e incantarsi. E poi c’è questo pensare per immagini, questo saltare di palo in frasca, che miete idee e prospettive capaci di rinnovare l’orizzonte. Questo riuscire a sciacquarsi l’anima ogni mattino e conservare lo sguardo della meraviglia.
Ho nel desiderio e nei sogni la mia bussola. Mi adopro per allinearmi con essi. E quando il desiderio si accende, al risveglio, la giornata che mi viene incontro è un regalo, un’opportunità, una fortuna, un’occasione…
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Con la sua bella abbronzatura riportata dalle vacanze, Margherita sul balcone. Basta lasciarci cadere gli occhi sopra per capire che Margherita adora i colori. L’ombrellone rosso fuoco, la pianta dai fiori gialli il gatto tigrato, i panni della bambina… E lei me lo conferma con vivacità e aggiunge che sta bene con persone dal carattere ben definito ed energico, che non le piacciono gli smorti.
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Loris mi chiede di indicargli quali sono i miei più efficaci espedienti meditativi per coltivare la sindrome di Peter Pan e ricollegarmi al flusso vitale.
Lo accontento volentieri.Sono tutte pratiche che svolgo, in successione casuale, al mattino al parco. Eccole elencate qui di seguito.
Sgranchirsi le ossa fin tanto che ti rendi conto che la tua anima ci si era addormentata dentro.
Bere a pieni polmoni l’aria fresca appena eccitata dalla carezza del sole.
Contemplare fugacemente la rugiada sul piccolo trifoglio toccato dalla prima luce solare. Esultare. Sgambettare. Inneggiare con trasporto al Dio dell’erba bambina.
Tendere e rilasciare con energia i glutei ad ogni passo. Sculettare un po’ sotto l'albero grande. E procedere con fare spastico, in pieno sole, per almeno due minuti.
Inseguire con convinzione la propria ombra per un po’ di tempo. Poi scappare dalla propria ombra, sempre con molta convinzione. Concludere camminando un po’ a fianco della propria ombra, come vecchi amici.
Faccia al sole, con gli occhi chiusi, dondolarsi per qualche tempo.
Faccia al sole, occhi chiusi. Stringere e rilasciare le palpebre, esplorando i mondi colorati che si avvicendano con i movimenti. Aprire improvvisamente gli occhi e stupirsi della luminosità vergine in cui il mondo ti ricompare davanti.
Faccia al sole con occhi chiusi, trovare la giusta tensione delle palpebre per vedere la ricca gamma di rossi e arancioni che si avvicendano. Cercare di permanere in quella scena che risulta essere la più affascinante e lasciarsi risucchiare per qualche tempo dall’oceano colorato. Sciogliersi completamente dentro come se si fosse di sale. Ricordarsi a un certo punto di rientrare. E stupirsi della luminosità del mondo.
Concentrarsi abbastanza sul volo di una colomba che fa lo “spirito santo” – se si ha la fortuna di vederla.. In generale, non perdersi nessun fatto strano che riguarda il volo degli uccelli.
Fare gesti sciamanici con mani e braccia emettendo suoni e rumori misteriosi, modulando liberamente la bocca.
Continuare ad emettere rumori apocalittici mentre si compiono torsioni varie del dorso, delle spalle, della schiena. Allungando le braccia verso il cielo nel tentativo di toccarlo con le dita.
Mimare gli alberi del viale e le torsioni dei loro rami.
Ballonzolare la testa con i movimenti del “no”, aumentando il ritmo fino a sentire le guance che sbatacchiano di qua e di là.
Rientrare gradualmente nel mondo reale con una breve camminata, mani in tasca, schiena al sole.
Una volta presa la china è facilissimo inventare esercizi più personalizzati.
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Comunque la cosa era interessante. Mi piaceva esserci e non facevo tante domande. Però per dirlo a parole, erano le parole inventate prima di me e usate da altri che mi si imponevano.
All’inizio, non volevo imparare a parlare. Mi sembrava una forzatura. Una violenza. Io – fosse stato per me – avrei continuato a vivere senza parlare. Solo facendo e sentendo. In silenzio. C’era bisogno di dirlo?
La gente però parlava e sapevo che avrei dovuto imparare a parlare anch’io. Un giorno mi ci son messa d’impegno e ho incominciato a imparare le parole.
Le parole sono grandi. Hanno un potere fantastico. Poi sono veramente tante. E combinate insieme possono fare frasi spettacolari. E possono perfino ottenere dei risultati, vale a dire, creare le cose che dicono.
Sono diventata presto brava con le parole. E ho anche imparato a fingere, dicendo con le parole cose che non erano, soprattutto se riguardavano me.
Mi sono anche accorta che raccontando parole-bugie agli altri riuscivo perfino a ingannare me stessa.E di qui sono passata al teatro, dove le bugie si dicono sapendo tutti che sono tali. E quindi non sono più bugie.