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Aggiornamenti di stato pubblicati da odessa1920

  1.  – Guarda la luna. È per tutti, ma si rivolge a te, come se fossi l’unico. L’universo è così. Indica a te che sei il centro del modo. Tocca a te inventare il tuo mondo. Non attendere le stelle, o l’oroscopo. Non attendere più. Non hai fatto che attendere. Ora basta. Non attendere. Decidi.

    Prenditi cura della tua vita. Abbi fiducia. La luna ti suggerisce di aver fiducia. Credi che la luna parli a te. Che gli eventi siano rivolti a te. Che tutto quello che ti capita sia un dono per te.

    Smettila di lottare con gli eventi, con l’esistente. Immagina che ciò che avviene sia Dio stesso, il tuo Dio. E che tu possa fare il mondo a modo tuo.

    Questa fiducia è la base di tutto. La fiducia: che puoi immaginare il tuo mondo. La decisione: che dipende da te portare bellezza e senso.

    Abbi cura di te. Perché l’universo ha il dito puntato su di te. Tu sei la cosa più importante. Sii all’altezza. Non aspettare più. Deciditi. Prenditi cura. Il resto verrà da sé.

     

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  2. Forse questo voleva dire il vecchio Aristotele quando affermava che ogni uomo è filosofo.


    Questa inquietudine che genera domande sull’essere, su come essere, su come rispondere al desiderio di vita.
    Forse. Non so. Lui era un altro. E io sono io. Il desiderio di vita è il mio. Quello che agita e muove questa faccenda strana che chiamo Io. Che chiamo la mia vita.

    Ultimamente il fato, o che so io, mi ha condotto all’incontro con la disperazione. Il nucleo denso e oscuro che ho chiamato disperazione. E per cui ho costruito nel bosco uno spazio apposito. Perché mi parli. Per sentire il suo richiamo. Per farmela amica. Per farla maestra e guida.

    Questo ho deciso, nelle mie congetture arbitrarie: che il nocciolo della disperazione è più amica della vita del sedersi gongolante sulla dolce meringa del già fatto, del già realizzato, del già raggiunto.

    Chi mi dirà come uscire dai confini? Chi mi spingerà ad esplorare nuovi territori? Chi, se non la disperazione, potrà rivelare ciò che ancora desidero perché la vita sia piena?

    Ecco che nel punto più oscuro e inquietante di me trovo lo spazio della rivelazione. Nel punto più doloroso, la fonte della speranza. Nel luogo più contratto trovo gli spazi più aperti – indicati, potenziali, dotati di un appello irresistibile.

    Dove sarà il mio Dio? Forse nelle brezze della sera, mentre la luce calante inonda le fronde dei pioppi? O nell’albeggiare rugiadoso del mattino, quando il corpo sente bisogno di fuoco per fronteggiare le temperature autunnali?

    La voce del mio Dio è racchiusa come in un gomitolo negli antri poco illuminati della disperazione.

    La voce della società è ormai la voce del mercato. E la voce del mercato chiede prodotti. La voce della filosofia chiede di essere, e di fare cose che siano espressione dell’essere, ricerca dell’essere.

    Nel bosco io vivo in uno spazio intermedio: lontano dal mercato e più vicino al fare che esprime il desiderio dell’essere.

    
È il luogo in cui il samurai si esercita.


    È il luogo in cui il principe medita.


    È il luogo in cui fare e ascoltare possono congiungersi senza pressioni e distrazioni.

    Oggi, nel bosco, esiste un luogo della disperazione. Un tavolo chiamato “bocconi amari”.
 È lì che mi chiama il mio maestro.

    Che farò domani? Mi domando io.

    
Che farai adesso? Dice la disperazione.

    
Cosa puoi fare adesso per rispondere al desiderio di vivere, di essere pienamente viva?


    E smetto di giocare al solitario per ingannare il tempo.


    E il tempo è nuovamente mio: il mio spazio di ricerca, di lavoro.

    Ma chi sei, Disperazione, per avere tanto potere?
“

    Sono il potere di ciò che ti manca”.

    
La mancanza non è il segno di un fallimento, né motivo di pianto. La mancanza è il pungolo vivace che mi riporta a me stessa, che sfronda le quisquilie. La mancanza è la voce del Daimon – se si vuol dar credito alla mitologia.


    Io vado a braccetto con la mancanza. Mi rende giovane. Che fanciulla affascinante! Perché certo mancanza è madre di Eros. Ed è lei che suscita in me intraprendenza.

    Che venga domani, dunque, con le forze rinnovate dal riposo.


    Per disegnare con mani fresche e passi di danza nuovi luoghi dell’essere. 


     

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  3. Questa gioia d’incominciare la giornata, al risveglio.

    Il piacere della mia casa vascello per navigare l’oceano dell’essere.

    Un cielo terso, fuori che promette sole e aria fresca.

    Continuo a lavorare al miglioramento di me. Alla creazione di me. Mi servo di questa sorta di specchio che si crea nella riflessione.

    È lavorando su di me che incontro gli altri più a fondo.

    La comunicazione è come muovere le gambe seduti ai bordi della stessa vasca: immersi nel medium che ci collega.

    È quello che sono che arriverà agli altri, non quello che recito. Spalancherò gli occhi per vedere la bellezza negli altri, per nutrirmi e godere la vita.

    Non credo più da tempo nella critica costruttiva.
    È avvenuto da sé.
    Preferisco il lavoro di produzione di proposte, alternative, nuove interpretazioni, idee...

    In questa prospettiva scoprire la realtà è un po' inventarla.

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  4. Non scrivo per forza. Scrivo solo quello che emerge dal cuore e chiede di essere condiviso. È facile riconoscerlo. Io sono presente. E ho gioia da questo sentire la vita, nel mio respiro, nel desiderio che affiora, nel canto degli uccelli, nel fragore del torrente, nella brezza tiepida che entra dalla finestra aperta, dal sogno che avvolge ogni cosa, dalla fiducia che fiorisce da sé in questa meravigliosa isola di pace.

     

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  5. Una cosa è certa: mantenere la fiducia, riprendere il cammino con quella forza interiore che osa sfidare ogni negativo.
    Sfidare il negativo – che siano eventi, che siano persone.
    Iniziare con il rafforzamento della fiducia.
    La fiducia non è entropia. È creazione, innovazione, iniziativa.

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  6. Ho voglia di qualcosa di nuovo. Il bisogno di essere libera dal contorno, libera dalla somiglianza, libera dal riconoscere qualcosa che è già nel nostro immaginario.


    Per dire cosa?


    Non so ancora.


    Per adesso mi vengono in mente gli avverbi.

    
Vorrei fotografare gli avverbi.


    Gli avverbi sono quasi tutti parole che fanno riferimento al modo. Il modo in cui si vivono le cose, il modo in cui si fanno le cose, il modo in cui si percepiscono le relazioni tra le cose.

    Io so come voglio il modo. So quali avverbi prediligo. Ma voglio spaziare. Come in una sorta di intrattenimento, una carrellata di avverbi, tanto per saggiare, come quando si tastano i dolcetti, i gelati, le confetture.

    Sarà una fotografia nuova?
 È possibile. Oggi sembra vero.


    Perché ci sono giorni esplosivi. E oggi è uno di questi.

     

     

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  7. Voglio cercare la gioia fin dal mattino. 


    Caricare lo spirito di leggera saggezza.


    Percorrere uno dei sentieri che accudiscono il respiro. 


    Essere lieta della mia ignoranza. 

    
Creare con le mani in tasca.

     

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  8. Quando sto male – come tutti – piango, prego, mi inquieto, dispero, mi abbandono, mi arrendo e mi do da fare.
    Riuscire ad isolarmi nell’adesso è come rannicchiarmi attorno alle mie ferite. Aspetto che passi – se passerà – risparmiando le forze.
    E riesco a trovare anche una certa pace. Mi accontento di essere. O di essere stata.


     

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  9. Vorrei conoscere di più le piante, le erbe, i fiori e i frutti… ma anche nell’ignoranza, la semplice immersione nella natura mi nutre.


    Libri, scritti, intrattenimento, traffico sociale, iniziative, mi svuoterebbero del tutto se non potessi ritornare periodicamente a immergermi in questo oceano verde.

     

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  10.  

    Les petits lacs de l'amour joyeux

    Oggi il bisogno di "diventare se stessi" appare sempre più rilevante.
 A volte un passaggio importante di questo processo consiste nello "smettere di essere se stessi" per trovare parti di sé ancora sconosciute.
 A volte sono proprio abbandoni e dolori strazianti a costituire le premesse di una svolta. Così appare a posteriori.
 
    Guardando avanti è sempre la speranza in una felicità più grande, quella che ci mette in moto.

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  11. Metterò radici nella roccia, dolcemente, poco alla volta, fino in fondo.


    Non sprecherò energie a lottare contro nemici. 


    Irradierò colore per chiunque ne voglia.

     

     

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  12. Trova il tuo ritmo. Né lento, né frettoloso. E colloca tra una cosa e l’altra il silenzio, la distensione.

    
Rivendica dai tuoi padroni il tempo della pausa, il ritmo della tua musica, gli spazi tra le note.


    Se ci riuscirai, ogni evento sarà Dio stesso, e nulla sarà più amabile, nutriente, perfetto, di quello che ti sta accadendo.

     Il tuo orto da coltivare, l’orto dove stanno nascendo i tuoi sogni.


     

     

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  13. Ho sempre amato le energie sostenibili.

     

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  14. Vorrei affacciarmi alla finestra e vedere il mare.


    Vorrei scendere al porto, se ci fosse.


    Salire sulla barca e andare.


    Non in alto mare, ma lungo la costa. A distanza tranquilla.
I

    l vento giusto. Il mare, agevole.
U

    na giornata di contemplazione e basta.


    Solo respirare, guardare, lasciare che la meraviglia della natura filtri dentro e diventi pensiero.

     

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  15. In ogni cuore giovane vive una danza. 

     

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  16. Quando faccio volar un aquilone mi allontano nel Cosmo, entro in uno stato di trance in cui si intuiscono verità felici, che penetrano con disinvoltura nei segreti della realtà, e assisto al formarsi di immaginarie congetture sulla vita che saltano a piè pari i confini del verosimile usuale. 

    Per il poeta, lo scienziato, il danzatore, il musico e l’avventuriero, l’Altrove è sempre più importante del consueto.

     

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  17. Va bene, dunque, perché vale la pena di vivere? Ecco un’ottima domanda. Uhm. Beh, esistono al mondo alcune cose, credo, per cui valga la pena di vivere. E cosa? Okay. Per me… ehm, io direi… per Groucho Marx tanto per dirne una, mhmmmm, e Willie Mays e… il secondo movimento della sinfonia Jupiter… Louis Armstrong, l’incisione “Potatohead Blues”… i film svedesi naturalmente… “L’educazione sentimentale” di Flaubert, Marlon Brando, Frank Sinatra, quelle incredibili… mele e pere di Cézanne, i granchi da Sam Wo, il viso di Tracy…

    Woody Allen Manhattan

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  18. Novembre è l’unico mese dell’anno tra ottobre e dicembre. Giusto per dargli un collocazione temporale. E manco a farlo apposta, proprio con un temporale è iniziato questo novembre. Uno si fa per dire.
    Stasera ho fatto le caldarroste, ne ho prese una manciata dalla padella, ho tirato fuori dall’armadio il mio giaccone pesante, e sono uscita a fare due passi. Io e le caldarroste nelle mie tasche ci facciamo una passeggiata.
    E proprio stasera, sgranocchiando castagne per strada e lasciando dietro di me una sottile scia di bucce, ho scorto nell’aria qualcosa di diverso, qualcosa di invernale, o quasi. Stasera c’è un’aria di passaggio, un’aria non-del-tutto. Un’aria affilata ma non troppo, umida ma non troppo, fredda ma non troppo, trasparente ma non troppo. L’aria di stasera ha un’aria decisamente transitoria, appena pochi giorni fa era diversa, un’aria dagli echi vagamente estivi, e adesso è qualcos’altro anche se non ha ancora assunto una forma definitiva. E mi piace respirare quest’aria che sta cambiando, e lei docile si lascia respirare.
    Questo novembre, insieme all’aria che muta di sostanza ed alle prime pioggie, qui in paese hanno chiuso i battenti un sacco di negozi e sulle vetrine spoglie vedo affissi cartelli gialli con una scritta nera: affittasi, vendesi, cedesi… perfino il negozio di fate ed elfi proprio vicino a casa mia ha cessato l’attività. Premetto che odio fate, elfi, troll e compagnia bella ma la cosa mi ha rattristato molto anche se mi sono chiesta come abbia fatto a rimanere aperto per quasi quattro anni. Io non ci ho mai comprato nulla e adesso mi sento pure un po’ in colpa.
    Comunque ammiro le persone che una mattina si svegliano e si dicono: oggi voglio campare vendendo fate ed elfi.
    A me non verrebbe mai in mente ed è una ineffabile limitazione.

     

     

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  19. Il piacere di stendere i panni sul balcone ovest poco prima del tramonto! 

    Guardi quegli sbuffi di nuvole folli mentre pinzi le magliette: è la penetrante musica del silenzio

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  20. Sentirsi diversi è bello.  
    È questa la molla che ci spinge verso nuove esperienze. 
    Sentirsi diversi. 
    Entrare in contatto con altri strati di noi stessi, finora sconosciuti. 
    Poi piano piano, la reiterazione delle emozioni e dei gesti, smussa le differenze e tutto se va.

     

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  21. Quando dobbiamo cambiare qualcosa da dove dobbiamo iniziare?
    Dall’inizio, si inizia sempre dall’inizio.
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  22. (Dedicato a Cristiano e Andrea)

    Mi piace sentirti dire che vuoi andare a Barcellona, iniziare una nuova vita, e mettere su la tua impresa. Hai un buon lavoro, un ottimo stipendio e quello che fai non ti dispiace affatto. Ma tu vuoi andare a Barcellona.


    C’è qualcosa nel tuo spirito indomito che t’impedisce di star seduto comodo e tranquillo sulla tua poltroncina. Ed è proprio questo che mi piace di te.

    Te lo dicevo nel vigneto. Ne parliamo ancora un po’?


    Era la faccenda di Pinocchio. Sai, ho rivisto il film di Benigni qualche giorno fa. E mi ci son messa a pensare sopra.


    Da ragazzina Pinocchio mi piaceva assai. 

    
Il libro Cuore mi piaceva anche, ma non come Pinocchio. Pinocchio era un burattino selvatico, insofferente delle regole sociali. E io credo di sapere molto bene quello che vuol dire.

    
Collodi e De Amicis – ho studiato – hanno scritto questi due romanzi come romanzi di formazione nel momento in cui si costruiva l’unità d’Italia e bisognava attrezzarsi per comportamenti adeguati. Insomma, diventare bravi ragazzi.

    Pinocchio è dunque il ragazzino selvatico che diventerà un bravo ragazzo – alla fine del libro. È chiaro che Pinocchio è simpatico soprattutto finché rimane burattino, non va a scuola, si prende gioco dei carabinieri, e ne fa di tutti i colori perfino con Geppetto, che – cosa veramente straordinaria – è riuscito a metterlo al mondo semplicemente con una sega.

    La svolta della storia avviene quando scopre che, a vivere a quel modo, sta diventando un asino. Questo lo spaventa a morte e allora si converte. Lui che non ne voleva sapere di scuola e di lavoro, ritornerà a scuola – miracolosamente motivato e sorridente – e si metterà a sgobbare per portare il latte a Geppetto e per ricomprargli la giacca. Nel film di Benigni questa parte è veramente molto esplicita. Pinocchio lavora a una macina, facendo proprio il lavoro dell’asino che non ha voluto diventare.

    Sarebbe come dire – correggimi se vado fuori le righe – che per non diventare un asino si mette a sgobbare come un asino!

    Questa riflessione mi è parsa veramente sconvolgente. Dunque, eccolo qua l’inghippo, la trappola dei bei discorsi formativi che cercano di promuovere l’adeguamento – o l’adattamento – alla società e alle sue regole. Per non diventare un asino, sgobbare come un asino!

    E allora?
 Dov’è la differenza?

    Ho letto con attenzione le teorie dei giusnaturalisti. Norberto Bobbio le presenta in maniera intellettualmente fantastica. 
Pinocchio me lo fa ritornare in mente.

    I giusnaturalisti s’impegnarono a pensare razionalmente il passaggio dallo stato naturale dell’uomo – immaginato come totalmente libero, ma anche pieno di pericoli e di limitazioni – allo stato civile, dove si trovava più potere collettivo, più sicurezza e tanti altri vantaggi, ma si era sottoposti all’autorità di un potere, e quindi si doveva rinunciare in tutta o in parte (dipende dagli autori) alla propria libertà naturale.

    Insomma, è la situazione di Pinocchio.
 

    O sei libero, giocherellone, e fai quel che più ti aggrada – ma allora diventi somaro, non fai parte del consesso civile, sei fuori… Oppure rinunci al tuo spirito di gioco e alla tua indipendenza assoluta e stai alle regole. E quali sono, te lo diciamo noi.

    Beh, non hai l’impressione che in questo giro di ragionamento, per quanto liscio possa apparire, si nasconda una trappola? Una sorta di pressione a un passaggio troppo frettoloso?

    Io penso di sì, perché infatti, tu che hai un buon lavoro, un buono stipendio, e quello che fai non ti dispiace affatto…, tu mi dicevi – con gli occhi che si accendevano – che volevi scappare a Barcellona, e mettere su qualcosa di tuo. E il nostro amico, che condivide il tuo sogno barcellonese  – in treno per Milano – mi manda un messaggio in cui mi confessa che è stato contento nel vignote “scoprendo che alla nostra età è ancora possibile giocare”.

     

     

     

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  23. Il giorno in cui mi staccai dalla mia ombra…

     

     

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  24. Oh sì, è meglio avere aperto le palpebre su questo scenario. E aver sentito tutto quello che hai sentito. E aver provato ad immaginare. E aver messo alla prova i propri talenti nell’interpretare le cose, e nel cercare con loro un’alleanza. È meglio averci provato a lasciare in eredità le tue piccole conquiste. E aver ricevuto in eredità un sacco di conquiste. E aver immaginato che i propri sforzi servissero a qualcosa. E aver guardato con curiosità e stupore negli occhi dei nostri figli. Ignari forse gli uni degli altri, ma comunque intrisi d’amore.
 E aver pensato che forse siamo solo ai primi passi di qualcosa che appena si annuncia.
E aver accettato la pazienza. Anche l’attesa. E la transitorietà di ciò che ci sembrava valere un’eternità.

    Da ragazzina credevo fosse più semplice. Ora è un po’ diverso. Ma è possibile recuperare l’innocenza. Ricominciare. Provare ancora a inventarsela la vita. A immaginarla come più piace. E fare come se…

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  25. Quando colgo i pensieri che arrivano, si creano le condizioni ideali perché succeda una cosa che mi accompagna generosamente da tempo immemorabile.

    Una sorta di magia che non smette di stupirmi. Si viene a creare come uno specchio dove io mi vedo, mi parlo e mi considero. Lì, nel gioco dello specchio, le cose vengono dette, si lasciano dire e vedere, tutto si appiana e arrivano le idee. Quelle idee tanto piacevoli che rischiarano il cammino. E alla fine ne vengo fuori rinnovata.


    E ciò che mi stupisce è constatare che io non sono un pezzo unico, ma che sono questo continuo colloquio con me stessa in cui mi sdoppio e vedo la me di me in quello specchio. La guardo, le parlo e mi faccio parlare.

    Quesa io che sta al di qua e quella me che sta di là sono una cosa sola, vivente, che dialoga in questo modo. Se una delle due parti scomparisse, penso che non sarei proprio per nulla. Il mio io può vivere e avere una storia proprio grazie a questa possibilità di avere una me.

    Io e il mio doppio siamo una cosa sola. La voglio sfruttare fino in fondo questa opportunità. 

     

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