Io non voglio lavorare. Io voglio essere me stessa, esprimermi liberamente e con passione. Trovare nei risultati il riconoscimento della bellezza della mia avventura. Inventare le modalità mie di stare nel mondo così com’è, ma senza esserne schiava.
Non voglio che la creatività sia una delle tante scuole a cui mi sottometto. Voglio che la creatività sia la mia avventura, il modo in cui io conduco la mia nave nell’oceano della realtà. Fino alla meta.
Ora ne vedo meglio il profilo.
Non è quel sorriso coraggioso che tu spingi avanti per fronteggiare le difficoltà, l’umore che scende, le cattive notizie. Quel sorriso che esprime la tua volontà di andare incontro alla vita per primo. Di fare il primo passo…
È quell’altro. Quel sorriso che ti sorge da dentro come un fiore, o come un fungo di stagione, quando cambia la luna, ha piovuto a dovere e c’è stato il primo sole. Il sorriso che viene da sé.
E questo sorriso senza sforzo che si presenta come dono. Ti viene da sorridere.
È la vita che torna a visitarti. Sembra dirti che aveva avuto delle cose da fare nel frattempo, che era stata molto occupata. Ma è come se ti stesse prendendo in giro. Come se avesse orchestrato tutto lei, da tempo. Per condurti a questo punto.
E ora, quel sorriso, è come il premio. Il dono. La festa.
E, ora che una nuova alba ha occhieggiato nella mia avventura, risorge, fresco come un ragazzino in pantaloni corti, il mio desiderio compagno, quello che mi rigira la vita come si rovesciano le tasche, che mi fa saltabeccare a molle nel sentiero del possibile e m’invita – con una certa premura – a saltare fuori della tazza, a uscire dal vicolo, a guardare più avanti, a esplorare l’ignoto, a disegnare i miei sogni sulla faccia della terra, come se fossero l’eco del sogno di Dio su di me.
O anche senza di me. Perché il sogno è bello in se stesso. Perché quello è il quadro che dev’essere fatto. Quello che mi ha rubato l’animo e mi ha fatto dimenticare tutto il resto.