Mi sono svegliata con l’urgenza fresca della ragazzina. Subito fuori, senza lungaggini, a gustare la vita. Per esplorare il mondo ed assaggiarlo a morsi, gli occhi sgranati dalla meraviglia.
Certi giorni la vita è l’aperto. Un luogo nuovo, per mettere a fuoco, vedere meglio. Tovo l'erba, la luce, l’aria fresca.
Poi arrivano pensieri, afferrati al volo e fissati rapidamente sul quaderno che mi porto dietro. Sempre camminando. Ed è lì che vedo dove sto andando e cosa voglio davvero e sento gioia per questa storia.
Anche a me, fin da bambina – soprattutto da bambina – piacciono i cavalli. Quelli degli indiani mi piacevano più di quelli dei cow boy, perché più naturali e liberi – meno soggiogati alla disciplina dell’addestramento.
Il cavallo, senza sella e redini, è sempre stato ai miei occhi un simbolo di libertà. Correre nelle praterie. Vigore ed elasticità. Nomade. Tutto sommato, senza appartenenza. Irriducibile. Cittadino di quell’altrove che non si lascia assorbire da nessun paese, gruppo, cultura. Ma desideroso di attraversarne tanti, come farebbe un esule. Vivere in luoghi diversi, parlare in più lingue, conoscere più culture.
Tutto questo è oltremodo attraente. E il nostro tempo offre la possibilità di questa esperienza a tanti. Le culture, a ben vedere, si stanno compenetrando, sono una a fianco dell’altra negli stessi luoghi.
E io dovrei rinchiudermi in una etnia, in una regione, in una confessione religiosa, in una ideologia?
I recinti diventano routine e generano noia. Pretendono di tenere nelle loro gabbie l’inquieto e inarrestabile potenziale umano, quello che si esprime nelle scoperte e nelle creazioni. E che vuole una lingua viva, generosa, audace, spregiudicata per diventare esperienza nuova. La lingua di un esule, di un nomade.
Lo sguardo di una cavalla.