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Divinamente gustosa
Ogni pietanza
Che approntano
Le tue mani di fata.
Novella Ebe,
A tavola ci tratti da Immortali
Che sperimentano
I variegati e industriosi
Frutti della tua arte.
Doni preziosi
Del tuo amore incondizionato.
Piaceri che colorano d’azzurro
La nostra vita.
Ragione in più
Per amarti,
Se non bastassero
La tua intramontabile bellezza
E la grandezza del tuo cuore.
-
Cosa sei…tu per me?
Ecco cosa sei:
Sei la magìa del Natale.
Sei l’incanto
Dei cristalli di neve
Che lenti s’adagiano
Sulla bianca coltre
Della terra nera.
Sei il calore del ceppo
Che nel camino
Sprigiona faville di fuoco.
Sei lo stupore dell’Attesa
Che inebria il cuore
Dei bambini sognanti.
Sei la rosa che d’inverno
Profuma le mie notti.
Sei tutta…
La ragione della vita mia.
Sei la luce
Del mio faticoso cammino.
Sei tutte le cose belle
Che porta seco il Natale.
-
A lungo andare
Il sognare non basta.
L’amore ha bisogno
Del suo ossigeno.
Che è il potersi guardare
Con tenerezza negli occhi,
Abbracciarsi, baciarsi
A perdifiato.
Con confidenza e complicità
Dialogare al risveglio
O prima di addormentarsi.
E’ nel DNA dell’uomo
E del mammifero,
E’ il comandamento
Del divino Amore.
Ancor più bello se
Nella magìa del Natale.
-
-
Cosa sei…tu per me?
Ecco cosa sei:
Sei la magìa del Natale.
Sei l’incanto
Dei cristalli di neve
Che lenti s’adagiano
Sulla bianca coltre
Della terra nera.
Sei il calore del ceppo
Che nel camino
Sprigiona faville di fuoco.
Sei lo stupore dell’Attesa
Che inebria il cuore
Dei bambini sognanti.
Sei la rosa che d’inverno
Profuma le mie notti.
Sei tutta…
La ragione della vita mia.
Sei la luce
Del mio faticoso cammino.
Sei tutte le cose belle
Che porta seco il Natale.
-
Non invecchiano mai
Le tue labbra
Di caldo velluto.
Che accendono i miei sensi
Ogni volta che
Si schiudono
Ed effondono
Il tuo spirito d’amore.
Che riscaldano la mia anima
Se d’impeto si posano
Sulla mia bocca.
Se come rugiada del mattino
Placano l’ardore
Della mia passione.
Se emettono parole di miele
Che toccano le corde
Dei miei precordi.
-
Riecheggia
La tua voce melodiosa
Nei miei orecchi.
E riaffiora alla memoria
Il tuo volto di madonnina
Dei primordi della nostra storia.
Felicità piena
Nel tuo sorriso
E nel mio cuore.
-
BALDESAR CASTIGLIONE
Dalle “ Rime “
III
Ecco la bella fronte e il dolce nodo,
gli occhi e le labbra formate in paradiso,
e il mento dolcemente diviso in sé,
per mano di Amore composto in dolce modo.
O vivo mio bel sole, perché non odo
le soavi parole e il dolce riso,
come chiaro vedo il sacro viso
per cui sempre pur piango e mai non godo?
E voi, cari, beati e dolci occhi,
per fare più chiari gli oscuri miei giorni,
avete passato tanti monti e fiumi;
or qui nel duro esilio, in pianti amari
sostenete che, ardendo, io mi consumi,
più che mai scarsi e avari verso di me.
IV
Gentile Euro, che i crespi nodi d’oro
fai girare per il bel volto or di qui or di lì,
fa’ in modo che, mentre spiri bramoso,
non intrichi le ali nei capelli, né le snodi mai;
chè se già tuo fratello Borea potè usare prodi
per porre fine agli ardenti suoi desideri,
il cielo non vuole che qui si aspiri per voi,
né mai si goda di tanta bellezza.
Potrai ben dire, se torni al tuo soggiorno,
né brami restar preso , con mille altri,
come il nostro levante fa scorno al tuo.
Ahimè, che penso? Già ti sentivo acceso,
chè aura non sei, ma fuoco, che d’intorno
voli ai capelli che Amore mi ha teso come laccio.
Dal “ Tirsi “
Il lamento del pastore Iola
VI – Fatto hanno ormai gli occhi miei una fontana
col pianto, ove si può spegnere la sete.
Venite, o fiere, giù da questo monte
a bere senza timore di laccio o rete;
e benché mi cada dalla fronte un fiume,
pastori, avrete fuoco dal petto;
chè neppure una piccolissima parte c’è del mio cuore
che ormai non sia trasformata in fuoco e fiamma.
VII – E tu, ninfa crudele, sei solo causa
della mia trasformazione in così strana figura;
chè così bella di fuori ti hanno fatta gli dei
e dentro poi crudele, acerba e dura.
Ma perché m’ingannassero i miei occhi,
contro ragione ti fece tale la natura.
Le fiere hanno un aspetto spaventoso e strano,
e tu l’animo fiero e il volto umano.
VIII – Umano è il volto tuo? Anzi divino,
chè dentro vi sono anche due chiare stelle.
Le fresche rose colte nel giardino
fanno d’amore le guance tenerelle,
la bocca sparge odor di gelsomino,
due fiori vermigli son le labbra belle,
la gola, il mento e il delicato petto
sono di candida neve e latte coagulato.
X – Le fiere ai boschi pur tornan la sera,
dove hanno riposo dalle loro fatiche;
i boschi a primavera si rivestono di foglie,
mentre erano ignudi nel tempo nevoso.
L’autunno fa l’uva matura e nera
e ogni albero coperto di novelli frutti;
il mio dolore, invece, non muta mai la sua tempra,
e le mie pene sono sempre acerbe.
XI – Ma i giorni oscuri diverrebbero sereni,
se la pietà ti pungesse un poco il cuore.
Allora sarebbero ameni i boschi e le fonti,
se tu fossi con me, o ninfa, in questo luogo.
Andrebbero pieni di dolce latte i fiumi,
se Amore per me ponesse in fuoco il tuo cuore;
e così sonori i miei versi sarebbero,
che invidia ne avrebbero ancora Orfeo e Lino.
XII- Corrimi, dunque, in braccio, o Galatea,
né ti sdegnar dei boschi, o d’esser mia.
Venere nei boschi accompagnar soleva
Il suo amante Adone, e lì spesso si addormentava.
La luna, che è su in cielo così bella dea,
seguiva un pastorello per amore;
e venne da lui nel bosco a una fontana,
perché le donò un velo di bianca lana.
-
CAMILLO BOITO
“ Senso “
…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….
La mattina seguente, prima delle nove, mi feci condurre nella mia carrozza al comando della fortezza.
L’erta mi pareva interminabile : gridavo a Giacomo di frustare i cavalli. Una folla di militari d’ogni colore, di
feriti, di popolani, ingombrava il piazzale innanzi al castello; ma giunsi senza ostacoli all’anticamera degli
uffici, dove un vecchio invalido pigliò il mio biglietto da visita. Dopo qualche minuto ritornò, dicendomi che
il generale Hauptmann mi pregava di passare nel suo quartiere privato, e che, appena sbrigati certi affari
urgentissimi, sarebbe venuto a presentarmi il suo omaggio. Fui condotta attraverso logge, corridoi e
terrazze in una sala, che dominava dalle tre larghe finestre la città intiera.
L’Adige, interrotto dai suoi ponti,
si torceva in una S, avente la prima delle sue pancie ai piedi del monticello su cui sorge Castel San Pietro,
e la seconda ai piedi di un altro bruno castello merlato; e sorgevano dalle case i culmini e le torri delle
vecchie basiliche; e in un largo spazio si vedeva l’ovale enorme dell’Arena antica. Il sole mattutino
rallegrava l’abitato ed i colli, e dall’una parte indorava le montagne, dall’altra gettava una luce placida
sull’interminabile pianura verde, sparsa di villaggi bianchi, di case, di chiese, di campanili. Entrarono nella
sala con gran fracasso di risa e salti due bimbe, le quali avevano il volto color di rosa e i capelli biondi
paglierini. Vedendomi, di primo botto rimasero impacciate, ma poi subito si fecero coraggio e mi vennero
accanto. La più grandicella disse : “ Signora, si accomodi. Vuole che vada a chiamare la mamma? “. “ No,
fanciulla mia, aspetto il tuo babbo “. “ Il babbo non l’abbiamo ancora visto stamane. Ha tanto da fare “. “ Lo
voglio vedere io il babbo”, gridò la più piccina. “ Gli voglio tanto bene io al
babbo “. In quella entrò il
generale,e le bimbe gli corsero incontro,gli si avviticchiarono alle gambe, tentavano di saltargli sulle spalle;
egli prendeva l’una e l’alzava e le dava un bacio, poi prendeva l’altra; e le due pazzerelle ridevano, e negli
occhi del generale spuntarono due lagrime di tenerezza beata. Si volse a me dicendo : “ Scusi, signora;
s’ella ha figliuoli, mi compatirà “. Si mise a sedere in faccia a me e soggiunse : “ Conosco di nome il signor
conte, e sarei lieto se potessi servire in qualcosa la signora contessa “. Feci un cenno al generale perché
allontanasse le bambine, ed egli disse loro con voce piena di dolcezza : “ Andate, figliuole mie, andate,
dobbiamo parlare con la signora”. Le bambine fecero un passo verso di me come per darmi un bacio;
voltai la testa; e se ne andarono finalmente un poco mortificate. “ Generale – mormorai – vengo a
compiere un dovere di suddita fedele “. “ La signora contessa è tedesca? “.
“ No, sono trentina “. “ Ah, va
bene “, esclamò, guardandomi con una cert’aria di stupore e di impazienza. “ Legga “ e gli porsi in atto
risoluto la lettera di Remigio, quella che avevo ritrovata nel taschino del portamonete. Il generale, dopo
avere letto : “ Non capisco; la lettera è indirizzata a lei? “. “ Sì, generale”. “ Dunque l’uomo che scrive è il
suo amante? “.
Non risposi. Il generale cavò di tasca un sigaro e lo accese; s’alzò da sedere e si pose a camminare su e giù
per la sala; tutt’a un tratto mi si piantò innanzi e, ficcandomi gli occhi in volto, disse : “ Dunque, ho fretta,
si sbrighi “. “ La lettera è di Remigio Ruiz, luogotenente del terzo reggimento granatieri “. “ E poi? “. “ La
lettera parla chiaro. S’è fatto credere malato, pagando i quattro medici – e aggiunsi con l’accento rapido
dell’odio : - è disertore dal campo di battaglia “. “ Ho inteso. Il tenente era l’amante suo e l’ha piantata. Ella
si vendica facendolo fucilare, e insieme con lui facendo fucilare i medici. E’
vero? “. “ Dei medici non
m’importa “. Il generale stette un poco meditando con le ciglia aggrottate, poi mi stese la lettera, che gli
avevo data : “ Signora, ci pensi : la delazione è un’infamia e l’opera sua è un assassinio “. “ Signor generale, -
esclamai, alzando il viso e guardandolo altera – compia il suo dovere “.
La sera, verso le nove, un soldato portò all’albergo della “ Torre di Londra “, dove finalmente mi avevano
trovata una camera, un biglietto che diceva : “ Domattina alle quattro e mezzo precise verranno fucilati nel
secondo cortile di Castel San Pietro il tenente Remigio Ruiz ed il medico del suo reggimento. Questo foglio
servirà per assistere all’esecuzione. Il sottoscritto chiede scusa alla signora contessa di non poterle offrire
anche lo spettacolo della fucilazione degli altri medici, i quali, per ragioni che qui è inutile riferire, vennero
rimandati ad un altro consiglio di guerra. ……………………..Generale Hauptmann “.
Alle tre e mezzo della notte buia uscivo a piedi dall’albergo,
accompagnata da Giacomo. Al basso del colle di
Castel San Pietro gli ordinai che mi lasciasse, e cominciai a salire sola la strada erta; avevo caldo, soffocavo;
non volevo togliermi il velo dalla faccia, bensì, sciolti i primi bottoni dell’abito, rivoltai i lembi dello scollo al
di dentro : quel po’ d’aria sul seno mi faceva respirare meglio. Le stelle impallidivano, si diffondeva intorno
un albore giallastro. Seguii dei soldati, che, girando il fianco del castello, entrarono in un cortile chiuso dagli
alti e cupi muri di cinta. Vi stavano già schierate due squadre di granatieri, immobili. Nessuno badava a me
in quel brulichio silenzioso di militari e in quelle mezze tenebre. Si sentivano le campane suonare giù nella
città, dalla quale salivano mille rumori confusi. Cigolò una porta bassa del castello, e ne uscirono due
uomini con le mani legate dietro la schiena; l’uno magro, bruno, camminava innanzi ritto,sicuro, con la
fronte alta; l’altro, fiancheggiato da due soldati, che lo reggevano con
molta fatica alle ascelle, si trascinava
singhiozzando. Non so che cosa seguisse; leggevano, credo; poi udii un gran frastuono,
e vidi il giovane bruno cadere, e nello stesso punto mi accorsi che Remigio era nudo fino alla cintura, e
quelle braccia, quelle spalle, quel collo, tutte quelle membra, che avevo tanto amato, m’abbagliarono. Mi
volò nella fantasia l’immagine del mio amante, quando a Venezia, nella “Sirena “, pieno d’ardore e di gioia,
m’aveva stretta per la prima volta fra le sue braccia d’acciaio. Un secondo frastuono mi scosse : sul torace
ancora palpitante e bianco più del marmo s’era slanciata una donna bionda, cui schizzavano addosso gli
zampilli di sangue. Alla vista di quella femmina turpe si ridestò in me tutto lo sdegno, e con lo sdegno la
dignità e la forza. Avevo la coscienza del mio diritto; m’avviai per uscire, tranquilla nell’orgoglio di un
difficile dovere compiuto.
Alla soglia del cancello mi sentii strappare il velo dal volto; mi girai e vidi
innanzi a me il grugno sporco
dell’ufficiale boemo. Cavò dalla bocca enorme il cannello della sua pipa, e, avvicinando al mio viso il suo
mustacchio, mi sputò sulla guancia…
-
SAFFO
Fr.40-41D
Ti amavo, Attide, un tempo…mi sembravi una fanciulla piccola e senza grazie.
Fr.18D ( la poesia, “ rose della Pieria “)
(trad. di Manara Valgimigli)
Morta tu giacerai
né rimpianto; chè non cogliesti
le rose della Pieria:
e ombra ignota anche nell’Ade
ti aggirerai,
tra scure ombre di morti
sperduta.
Fr.61D (La rivale Andromeda)
Che rustica donna t’affascina l’animo (o Attide?), una donna che indossava una rustica stola
e non sa rialzare la veste sopra la caviglia?
Commiato Fr.96D (e nostalgìa)
“Vorrei proprio esser morta”. Ed ella mi lasciava tra molte lacrime;
e questo mi disse: “ Ahimè che gran dolore il nostro, o Saffo: con mia pena davvero t’abbandono!”. Ed
io a lei: “Addio, va! E ricordati di me; tu sai infatti quanto bene ti volevo. Ma se non sai, allora io voglio
ricordarti (quante dolci) e soavi cose godevamo; chè di viole e di rose
ed insieme di croco molte corone sul capo ti cingesti a me vicina e molte
ghirlande intrecciate intorno al tenero collo fatte di fiori… e con essenza
di fiori e regale ungesti…, e su morbidi letti…placavi il desiderio,
né v’era festa da cui mancavamo né bosco sacro…”.
-
SEMONIDE AMORGINO
Fr. 7D (trad.di Ettore Bignone)
Diversa Giove delle donne l’indole
da principio creò. All’una origine
dal porco irsuto diede. In terra giacciono,
nella sua casa, tra sozzura lercia,
a lei le cose; e qua e là si rotolano,
in gran scompiglio: e sozza, in vesti sordide,
in mezzo alla sporcizia essa s’impingua.
Trasse il dio l’altra dall’ape subdola,
chè tutto scruta e sa; a lei qualsiasi
ottima cosa, od anco pur tristissima,
celata non resta ;il buono pessimo
dice spesso, ed invece ottimo il tristo.
Sempre d’umore ad ora ad ora è varia.
(Trad.di Filippo M. Pontani)
Viene dal mare un’altra, e ha due nature
opposte: un giorno ride, tutta allegra,
sì che a vederla in casa uno l’ammira:
“ non c’è al mondo una donna più simpatica,
non c’è donna migliore”. Un altro giorno
non la sopporti neppure a vederla
o ad andarle vicino: fa la pazza,
e a chi s’accosti, guai! Pare la cagna
coi cuccioli, implacabile: scoraggia
nemici e amici alla stessa maniera.
Come il mare che sta sovente calmo,
non fa danno e rallegra i marinai
nell’estate, e sovente in un fragore
di cavalloni s’agita e s’infuria.
Tale l’umore di una donna simile:
anche il mare ha carattere cangiante.
(Trad. di Ettore Romagnoli)
Fu madre all’altra una cavalla morbida,
di lungo crine. La fatica e le opere
servili ha in gran fastidio, e staccio e macina
non toccherebbe mai, né l’immondizia
spazzerebbe da casa, o la fuliggine
dal focolare, e t’ama sol per obbligo.
Sta tutto quanto il santo giorno a tergersi,
due volte e spesso tre s’unge di balsami,
ravviata la chioma a fil di pettine,
disciolta, ombrata di corolle floride.
E’ questa donna, certo, uno spettacolo
bello per gli altri; e pel marito un guaio,
se pur non sia re di corona o principe,
che di tali vaghezze allegri l’animo.
Trad.di Giacomo Leopardi
Ma la donna ch’a l’ape è somiglievole
beato è chi l’ottien, che d’ogni biasimo
sola è disciolta, e seco ride e prospera
la mortal vita. In carità reciproca,
poiché bella e gentil prole crearono,
ambo i consorti dolcemente invecchiano.
Splende fra tutte; e la circonda e seguita
non so qual garbo; né con l’altre è solita
goder di novellari osceni e fetidi.
Questa, che delle donne è prima ed ottima,
i numi alcuna volta ci largiscono.
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SEMONIDE AMORGINO
Fr. 7D (trad.di Ettore Bignone)
Diversa Giove delle donne l’indole
da principio creò. All’una origine
dal porco irsuto diede. In terra giacciono,
nella sua casa, tra sozzura lercia,
a lei le cose; e qua e là si rotolano,
in gran scompiglio: e sozza, in vesti sordide,
in mezzo alla sporcizia essa s’impingua.
Trasse il dio l’altra dall’ape subdola,
chè tutto scruta e sa; a lei qualsiasi
ottima cosa, od anco pur tristissima,
celata non resta ;il buono pessimo
dice spesso, ed invece ottimo il tristo.
Sempre d’umore ad ora ad ora è varia.
(Trad.di Filippo M. Pontani)
Viene dal mare un’altra, e ha due nature
opposte: un giorno ride, tutta allegra,
sì che a vederla in casa uno l’ammira:
“ non c’è al mondo una donna più simpatica,
non c’è donna migliore”. Un altro giorno
non la sopporti neppure a vederla
o ad andarle vicino: fa la pazza,
e a chi s’accosti, guai! Pare la cagna
coi cuccioli, implacabile: scoraggia
nemici e amici alla stessa maniera.
Come il mare che sta sovente calmo,
non fa danno e rallegra i marinai
nell’estate, e sovente in un fragore
di cavalloni s’agita e s’infuria.
Tale l’umore di una donna simile:
anche il mare ha carattere cangiante.
(Trad. di Ettore Romagnoli)
Fu madre all’altra una cavalla morbida,
di lungo crine. La fatica e le opere
servili ha in gran fastidio, e staccio e macina
non toccherebbe mai, né l’immondizia
spazzerebbe da casa, o la fuliggine
dal focolare, e t’ama sol per obbligo.
Sta tutto quanto il santo giorno a tergersi,
due volte e spesso tre s’unge di balsami,
ravviata la chioma a fil di pettine,
disciolta, ombrata di corolle floride.
E’ questa donna, certo, uno spettacolo
bello per gli altri; e pel marito un guaio,
se pur non sia re di corona o principe,
che di tali vaghezze allegri l’animo.
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V: MONTI
Pel giorno onomastico della mia donna
( canzone libera )
Donna, parte più cara dell’anima mia,
perché mi guardi muta in atto pensoso,
e le tue pupille si fanno rugiadose
di segrete stille?
Intendo, o mia diletta, la cagione
di quel silenzio e di quel pianto.
L’eccesso dei miei mali ti toglie la favella,
e discioglie in lacrime furtive il tuo dolore.
Ma datti pace, e solleva il cuore
ad un pensiero più degno di me e, insieme,
della tua forte anima. La stella del viver mio
s’appressa al suo tramonto : ma ti giovi sperare
che non morrò del tutto : pensa che un nome
non oscuro ti lascio, e tale che un giorno
fra le italiche donne ti sarà bel vanto il dire :
“ Io fui l’amore del cantore di Basville,
del cantore che vestì l’ira di Achille
di care itale note”.
Soave rimembranza ancora ti sarà
che ogni spirito gentile compianse i miei casi
( tra i lombardi qual è lo spirito che non sia gentile? ).
Ma con tutto ciò poni nella mente
che cerca un lungo soffrire chi cerca
lungo corso di vita. Oh Teresa mia,
e tu parimenti sventurata e cara figlia mia!
Oh voi che sole temperate il molto amaro
della mia triste esistenza con qualche dolcezza,
poco manca che, lacrimando, chiuderete
i miei occhi nell’eterno sonno! Ma sia breve
per causa mia il lacrimare : chè nulla,
fuor che il vostro dolore, sarà che mi gravi
nel partirmi da questo mortal soggiorno
troppo funesto ai buoni, in cui corte
vivono le gioie e così lunghe le pene;
ove non è già bello rimanere per dura prova,
ma bello l’uscirne e far presto tragitto
a quello dei ben vissuti a cui aspiro.
E quivi di te memore, e fatto cigno immortale
( chè l’arte dei poeti in cielo è pregio e non colpa ),
il tuo fedele, adorata mia donna,
ti aspetterà cantando le tue lodi,
finchè non giunga; e molto dei tuoi cari
costumi parlerò coi celesti, e dirò quanta
fu la tua pietà verso il miserando tuo consorte;
e le anime beate, innamorate della tua virtù,
pregheranno Dio che lieti e sempre sereni
siano i tuoi giorni e quelli dei dolci amici
che ne faranno corona : principalmente i tuoi,
mio generoso ospite amato,
che fai verace fede del detto antico,
che ritrova un tesoro chi ritrova un amico.
-
OVIDIO
Dall’” Ars amatoria “ : 1, 135- 166
Né le corse dei nobili cavalli
trascurar tu dovrai: con le sue dense
folle molti vantaggi offre anche il Circo.
Ivi non delle dita hai tu bisogno
per dir l’animo tuo, non già per mezzo
di cenni devi attendere risposte;
ma ben vicino ( nulla ti trattenga )
siedi alla bella; stringiti col fianco
più presso che tu puoi contro il suo fianco.
E ben potrai; chè, s’anche ella non voglia,
tutto lo spazio ivi costringe; il luogo
stesso là vuol che tu la donna tocchi.
Cerca un motivo allor per avviare
Il discorso con lei, e siano pure
detti comuni le parole prime.
Chiedile di chi siano i cavalli
che si avanzano, e pronto il tuo favore
a quello da’ ch’è favorito suo.
E quando poi verrà la lunga pompa
dei Numi eburni, a Venere tu plaudi,
patrona tua, con fervorosa mano.
Se, come avviene, alla fanciulla in seno
è per caso un pulviscolo caduto,
pronto col dito scuoterlo dovrai,
e se nessun pulviscolo vi cada,
pur tu scuoti quel nulla; ogni pretesto
buono ti sia per renderlo servigio.
Se troppo le si strascica la veste,
per terra, e tu sollevala, con pronta
man che dal suolo immondo la preservi,
e tosto allora, premio del tuo zelo,
potranno gli occhi tuoi alla fanciulla
consenziente rimirar le gambe.
E bada poi, chiunque sia seduto
dietro di lei, che il delicato dorso
ei non le prema con le sue ginocchia.
Piccoli offici adescano codeste
anime lievi; utile fu per molti
disporre con sagace arte un cuscino;
anche agitar giovò una tabelletta
per un po’ di frescura, e sottoporre
a due piedini un concavo sgabello.
Codesti approcci spesso in tali arene il figlio
di Venere, e colui che l’altrui piaghe
stava a guardar piagato fu egli stesso.
…………………………………………………………..
( Trad. di G. vitali )
-
CARDUCCI
Idillio maremmano
Co ‘l raggio de l’april nuovo che inonda
roseo la stanza tu sorridi ancora
improvvisa al mio cuore, o Maria bionda;
e il cuor che t’obliò, dopo tant’ora
di tumulti oziosi in te riposa,
o amor mio primo, o d’amor dolce aurora.
Ove sei? Senza nozze e sospirosa
non passasti già tu; certo il natio
borgo ti accoglie lieta madre e sposa;
chè il fianco baldanzoso ed il restio
seno a i freni del vel promettean troppa
gioia d’amplessi al marital desio.
Forti figli pendean da la tua poppa
certo, ed or baldi un tuo sguardo cercando
al mal domo caval saltano in groppa.
Com’eri bella, o giovinetta, quando
tra l’ondeggiar de’ lunghi solchi uscivi
un tuo serto di fiori in man recando,
alta e ridente, e sotto i cigli vivi
di selvatico fuoco lampeggiante
grande e profondo l’occhio azzurro aprivi!
Come il cìano seren tra ‘l biondeggiante
or de le spighe, tra la chioma flava
fioria quell’occhio azzurro; e a te d’avante
la grande estate, e intorno, fiammeggiava;
sparso tra’ verdi rami il sol ridea
del melogran, che rosso scintillava.
Al tuo passar, siccome a la sua dea,
il bel pavon l’occhiuta coda apria,
guardando, e un rauco grido a te mettea.
Oh come fredda indi la vita mia,
come oscura e incresciosa è trapassata!
Meglio era sposar te, bionda Maria!
-
CARDUCCI
Per le nozze di mia figlia ( 1880-81 )
O nata quando su la mia povera
casa passava come uccel profugo
la speranza, e io disdegnoso
battea le porte de l’avvenire;
or che il piè fermai su ‘l termine
cui combattendo valsi raggiungere
e rauchi squittiscon da torno
i pappagalli lusingatori;
tu mia colomba t’involi, trepida
il nuovo nido voli a contessere
oltre Appennino, nel nativo
aere dolce de’ colli tòschi.
Va’ con l’amore, va’ con la gioia,
va’ con la fede candida. L’umide
pupille fise al vel fuggente,
la mia Camena tace e ripensa.
Ripensa i giorni quando tu parvola
coglievi fiori sotto le acacie,
ed ella reggendoti a mano
fantasmi e forme spiava in cielo.
Ripensa i giorni quando a la morbida
tua chioma intorno rozze strisciavano
le strofe contro a gli oligarchi
librate e al vulgo vile d’Italia.
E tu crescevi pensosa vergine,
quand’ella prese d’assalto intrepida
i clivi de l’arte e piantovvi
la sua bandiera garibaldina.
Riguarda, e pensa. De gli anni il tramite
teco fìa dolce forse ritessere,
e risognare i cari sogni
nel blando riso de’ figli tuoi?
O forse meglio giova combattere
fino a che l’ora sacra richiamine?
Allora, o mia figlia, - nessuna
me Beatrice ne’ cieli attende –
allora al passo che Omèro ellenico
e il cristiano Dante passarono
mi sgorga il tuo sguardo soave
la nota voce tua m’accompagni.
-
G. UNGARETTI
Da “ Sentimento del tempo “
Scade flessuosa la pianura d’acqua.
Nelle sue urne il sole
Ancora segreto si bagna.
Una carnagione lieve trascorre.
Ed ella apre improvvisa ai seni
La grande mitezza degli occhi.
L’ombra sommersa delle rocce muore.
Dolce sbocciata dalle anche ilari,
Il vero amore è quiete accesa,
E la godo diffusa
Dall’ala alabastrina
D’una mattina immobile.
Ricordo d’Affrica ( 1924 )
Non più ora tra la piana sterminata
E il largo mare m’apporterò, né umili
Di remote età, udrò più sciogliersi, chiari,
Nell’aria limpida, squilli; né più
Le grazie acerbe andrà nudando
E in forme favolose esalterà
Folle la fantasia,
Né dal rado palmeto Diana apparsa
In agile abito di luce,
Rincorrerò
( In un suo gelo altiera s’abbagliava,
Ma le seguiva gli occhi nel posarli
Arroventando disgraziate brame,
Per sempre
Infinito velluto ).
E’ solo linea vaporosa il mare
Che un giorno germogliò rapace,
E nappo d’un miele, non più gustato
Per non morire di sete, mi pare
La piana, e a un seno casto, Diana vezzo
D’opali, ma nemmeno d’invisibile
Non palpita.
Ah! Questa è l’ora che annuvola e smemora.
-
MONTALE
Quasi un madrigale
Il girasole piega a occidente
e già precipita il giorno nel suo
occhio in rovina e l’aria dell’estate
s’addensa e già curva le foglie e il fumo
dei cantieri. S’allontana con scorrere
secco di nubi e stridere di fulmini
quest’ultimo gioco del cielo. Ancora,
e da anni, cara, ci ferma il mutarsi
degli alberi stretti dentro la cerchia
dei Navigli. Ma è sempre il nostro giorno
e sempre quel sole che se ne va
con il filo del suo raggio affettuoso.
Non ho più ricordi,non voglio ricordare;
la memoria risale dalla morte,
la vita è senza fine. Ogni giorno
è nostro. Uno si fermerà per sempre,
e tu con me, quando ci sembri tardi.
Qui sull’argine del canale, i piedi
in altalena, come di fanciulli,
guardiamo l’acqua, i primi rami dentro
il suo colore verde che s’oscura.
E l’uomo che in silenzio s’avvicina
non nasconde un coltello fra le mani,
ma un fiore di geranio.
Altra volta salimmo fino alla torre
dove sovente un passero solitario
modulava il motivo che Massenet
imprestò al suo Des Grieux.
Più tardi ne uccisi uno fermo sull’asta
della bandiera : il solo mio delitto
che non so perdonarmi. Ma ero pazzo
e non di te, pazzo di gioventù,
pazzo della stagione più ridicola
della vita. Ora sto
a chiedermi che posto tu hai avuto
in quella mia stagione. Certo un senso
allora inesprimibile, più tardi
non l’oblio ma una punta che feriva
quasi a sangue. Ma allora eri già morta
e non ho mai saputo dove e come.
Oggi penso che tu sei stata un genio
di pura inesistenza, un’agnizione
reale perché assurda. Lo stupore
quando s’incarna è lampo che ti abbaglia
e si spenge. Durare potrebbe essere
l’effetto di una droga nel creato,
in un medium di cui non si ebbe mai
alcuna prova.
-
MONTALE
Quasi un madrigale
Il girasole piega a occidente
e già precipita il giorno nel suo
occhio in rovina e l’aria dell’estate
s’addensa e già curva le foglie e il fumo
dei cantieri. S’allontana con scorrere
secco di nubi e stridere di fulmini
quest’ultimo gioco del cielo. Ancora,
e da anni, cara, ci ferma il mutarsi
degli alberi stretti dentro la cerchia
dei Navigli. Ma è sempre il nostro giorno
e sempre quel sole che se ne va
con il filo del suo raggio affettuoso.
Non ho più ricordi,non voglio ricordare;
la memoria risale dalla morte,
la vita è senza fine. Ogni giorno
è nostro. Uno si fermerà per sempre,
e tu con me, quando ci sembri tardi.
Qui sull’argine del canale, i piedi
in altalena, come di fanciulli,
guardiamo l’acqua, i primi rami dentro
il suo colore verde che s’oscura.
E l’uomo che in silenzio s’avvicina
non nasconde un coltello fra le mani,
ma un fiore di geranio.
Altra volta salimmo fino alla torre
dove sovente un passero solitario
modulava il motivo che Massenet
imprestò al suo Des Grieux.
Più tardi ne uccisi uno fermo sull’asta
della bandiera : il solo mio delitto
che non so perdonarmi. Ma ero pazzo
e non di te, pazzo di gioventù,
pazzo della stagione più ridicola
della vita. Ora sto
a chiedermi che posto tu hai avuto
in quella mia stagione. Certo un senso
allora inesprimibile, più tardi
non l’oblio ma una punta che feriva
quasi a sangue. Ma allora eri già morta
e non ho mai saputo dove e come.
Oggi penso che tu sei stata un genio
di pura inesistenza, un’agnizione
reale perché assurda. Lo stupore
quando s’incarna è lampo che ti abbaglia
e si spenge. Durare potrebbe essere
l’effetto di una droga nel creato,
in un medium di cui non si ebbe mai
alcuna prova.
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MONTALE
Sorapis, 40 anni fa
Non ho mai amato molto la montagna
e detesto le Alpi. Le Ande, le Cordigliere
non le ho vedute mai. Pure la Sierra
de Guadarrama mi ha rapito, dolce
com’è l’ascesa e in vetta daini, cervi,
secondo le notizie dei dèpliants turistici.
Solo l’elettrica aria dellEngadina
ci vinse, mio insettino, ma non si era
tanto ricchi da dirci “ hic manebimus “.
Tra i laghi solo quello di Sorapis
fu la grande scoperta. C’era la solitudine
delle marmotte più udite che intraviste
e l’aria dei Celesti, ma quale strada
per accedervi? Dapprima la percorsi
da solo per vedere se i tuoi occhietti
potevano addentrarsi tra cunicoli
zigzaganti tra lastre alte di ghiaccio.
E così lunga! Confortata solo
Nel primo tratto, in folti di conifere,
dallo squillo d’allarme delle ghiandaie.
Poi ti guidai tenendoti per mano
fino alla cima, una capanna vuota.
Fu quello il nostro lago, poche spanne d’acqua,
due vite troppo giovani per essere vecchie,
e troppo vecchie per sentirsi giovani.
Scoprimmo allora che cos’è l’età.
Non ha nulla a che fare col tempo, è qualcosa che dice
che ci fa dire siamo qui, è un miracolo
che non si può ripetere. Al confronto
la gioventù è il più vile degli inganni.
-
QUASIMODO
“ E la tua veste è bianca “
Piegato hai il capo e mi guardi;
e la tua veste è bianca,
e un seno affiora dalla trina
sciolta sull’omero sinistro.
Mi supera la luce, trema,
e tocca le tue braccia ignude.
Ti rivedo. Parole
avevi chiuse e rapide,
che mettevano cuore
nel peso d’una vita
che sapeva di circo.
Profonda la strada
su cui scendeva il vento
certe notti di marzo,
e ci svegliava ignoti,
come la prima volta.
“ Antico inverno “
Desiderio delle tue mani chiare
nella penombra della fiamma :
sapevano di rovere e di rose;
di morte. Antico inverno.
Cercavano il miglio gli uccelli
ed erano subito di neve;
così le parole.
Un po’ di sole, una raggera d’angelo,
e poi la nebbia; e gli alberi,
e noi fatti d’aria al mattino.
-
QUASIMODO
“ E la tua veste è bianca “
Piegato hai il capo e mi guardi;
e la tua veste è bianca,
e un seno affiora dalla trina
sciolta sull’omero sinistro.
Mi supera la luce, trema,
e tocca le tue braccia ignude.
Ti rivedo. Parole
avevi chiuse e rapide,
che mettevano cuore
nel peso d’una vita
che sapeva di circo.
Profonda la strada
su cui scendeva il vento
certe notti di marzo,
e ci svegliava ignoti,
come la prima volta.
“ Antico inverno “
Desiderio delle tue mani chiare
nella penombra della fiamma :
sapevano di rovere e di rose;
di morte. Antico inverno.
Cercavano il miglio gli uccelli
ed erano subito di neve;
così le parole.
Un po’ di sole, una raggera d’angelo,
e poi la nebbia; e gli alberi,
e noi fatti d’aria al mattino.
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scompaiomatorno ha aggiunto una reazione
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SABA
Carmen
Torna la mia disperazione a te.
Dopo aver tanto errato, oggi il mio amore
torna al tuo fiero mutevole ardore,
più nulla chiede che la tua onestà.
In queste lunghe giornate d’affanno,
che senza lotta e senza pace vanno,
e senza la tua gaia crudeltà;
con la mia solitaria anima invisa,
ho sognato pur io d’averti uccisa,
per l’ebbrezza di piangere su te.
Incolpabile amica, austera figlia
d’amore, se la vita oggi t’esiglia,
con la musica ancora vieni a me.
Geloso sono non di don josè,
non d’Escamillo; di chi prima un canto
sciolse alla tua purezza ed al tuo santo
coraggio incontro alla tua verità.
Né tu forse da me vivi lontana,
da me che all’amor tuo faccio ritorno,
e non cerco a Siviglia il tuo soggiorno.
Solo vagavo il mattino di un giorno
di festa, e tra la folla oscura e vana
tu m’apparivi in una popolana
di Firenze; la tua mano era stesa
a sollevare le tende di una chiesa,
le gialle e rosse tende sull’entrata.
Parevi stanca, parevi ammalata,
ma t’ho riconosciuta io che t’ho amata.
Io che a fatica ho rattenuto un grido,
mi sono meritato un tuo sorriso,
sabato
-
SABA
Dopo la tristezza
Questo pane ha il sapore d’un ricordo,
mangiato in questa povera osteria,
dov’è più abbandonato e ingombro il porto.
E della birra mi godo l’amaro,
seduto del ritorno a mezza via,
in faccia ai monti annuvolati e al faro.
L’anima mia che una sua pena ha vinta,
con occhi nuovi nell’antica sera
guarda un pilota con la moglie incinta;
E un bastimento, di che il vecchio legno
luccica al sole, e con la ciminiera
lunga quanto i due alberi, è un disegno
fanciullesco, che ho fatto or son vent’anni:
E chi mi avrebbe detto la mia vita
così bella, con tanti dolci affanni,
e tanta beatitudine romita!
-
U. SABA
La gatta
La tua gattina è diventata magra.
Altro male non è il suo che d’amore :
male che alle tue cure la consacra.
Non provi un’accorata tenerezza?
Non la senti vibrare come un cuore
sotto alla tua carezza?
Ai miei occhi è perfetta
come te questa tua selvaggia gatta,
ma come te ragazza
e innamorata, che sempre cercavi,
che senza pace qua e là t’aggiravi,
che tutti dicevano : “ E’ pazza “.
E’ come te ragazza.
-
MIMNERMO
Dal poema elegiaco dedicato a NANNO’
Fr.1D – trad. di Salvatore Quasimodo
Quale vita, che dolcezza senza Afrodite d’oro?
Meglio morire quando non avrò più cari
gli amori segreti e il letto e le dolcissime offerte,
che di giovinezza sono i fiori fugaci
per gli uomini e le donne.
Quando viene la dolorosa vecchiaia
che rende l’uomo bello simile al brutto,
sempre nella mente lo consumano malvagi pensieri;
ma è odioso ai fanciulli e sprezzato dalle donne:
tanto grave Zeus volle la vecchiaia.
Fr. 2D – trad. di Filippo M. Pontani
Siamo come le foglie nate alla stagione florida
-
crescono così rapide nel sole - :
godiamo per un gramo tempo i fiori dell’età,
dagli dèi non sapendo il bene, il male.
Rigide, accanto, stanno due parvenze brune:
l’una ha un destino di vecchiezza atroce,
l’altra di morte. E il frutto di giovinezza è un attimo,
quanto dilaga sulla terra il sole.
Ma come varca la stagione il suo confine, allora
essere morti è meglio che la vita:
il cuore sperimenta tanti guai; la casa a volte
si strugge e viene la miseria amara;
uno è privo di figli: li desidera, e scende
nell’aldilà con quell’accoramento;
un altro ha un morbo che lo strema. Non c’è uomo
che da Zeus non riceva guai su guai.
Fr. 10 D – trad. di Ettore Bignone
Travaglio in sorte, assiduo, ebbe ogni giorno il Sole;
né a lui, né ai suoi destrieri requie veruna mai
non fu data, da quando l’Aurora che ha dita di rosa,
sorgendo da l’Oceano, ascende lieve ai cieli;
e lui, dormente, del mare sui flutti un bellissimo, alato,
concavo letto d’oro, a fior de l’acque trae,
prezioso, costrutto di mano di Efesto, veloce,
ai versier delle Esperidi, degli Etiopi ai lidi;
dove il rapido carro e i destrieri del Sole hanno posa,
sin che, dell’Alba figlia, ritorni ancor, l’Aurora,
e ancor sul cocchio ascenda il figlio d’Iperione.
-
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MIMNERMO
Dal poema elegiaco dedicato a NANNO’
Fr.1D – trad. di Salvatore Quasimodo
Quale vita, che dolcezza senza Afrodite d’oro?
Meglio morire quando non avrò più cari
gli amori segreti e il letto e le dolcissime offerte,
che di giovinezza sono i fiori fugaci
per gli uomini e le donne.
Quando viene la dolorosa vecchiaia
che rende l’uomo bello simile al brutto,
sempre nella mente lo consumano malvagi pensieri;
ma è odioso ai fanciulli e sprezzato dalle donne:
tanto grave Zeus volle la vecchiaia.
Fr. 2D – trad. di Filippo M. Pontani
Siamo come le foglie nate alla stagione florida
-
crescono così rapide nel sole - :
godiamo per un gramo tempo i fiori dell’età,
dagli dèi non sapendo il bene, il male.
Rigide, accanto, stanno due parvenze brune:
l’una ha un destino di vecchiezza atroce,
l’altra di morte. E il frutto di giovinezza è un attimo,
quanto dilaga sulla terra il sole.
Ma come varca la stagione il suo confine, allora
essere morti è meglio che la vita:
il cuore sperimenta tanti guai; la casa a volte
si strugge e viene la miseria amara;
uno è privo di figli: li desidera, e scende
nell’aldilà con quell’accoramento;
un altro ha un morbo che lo strema. Non c’è uomo
che da Zeus non riceva guai su guai.
Fr. 10 D – trad. di Ettore Bignone
Travaglio in sorte, assiduo, ebbe ogni giorno il Sole;
né a lui, né ai suoi destrieri requie veruna mai
non fu data, da quando l’Aurora che ha dita di rosa,
sorgendo da l’Oceano, ascende lieve ai cieli;
e lui, dormente, del mare sui flutti un bellissimo, alato,
concavo letto d’oro, a fior de l’acque trae,
prezioso, costrutto di mano di Efesto, veloce,
ai versier delle Esperidi, degli Etiopi ai lidi;
dove il rapido carro e i destrieri del Sole hanno posa,
sin che, dell’Alba figlia, ritorni ancor, l’Aurora,
e ancor sul cocchio ascenda il figlio d’Iperione.
-
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S. Quasimodo
Da “ Oboe sommerso “
Parola
Tu ridi che per sillabe mi scarno
e curvo cieli e colli, azzurra siepe
a me d’intorno, e stormir d’olmi
e voci d’acque trepide; -
che giovinezza inganno
con nuvole e colori
che la luce sprofonda.
Ti so. In te tutta smarrita
alza bellezza i seni,
s’incava ai lombi e in soave moto
s’allarga per il pube timoroso,
e ridiscende in armonia di forme
ai piedi belli con dieci conchiglie.
Ma se ti prendo, ecco :
parola tu pure mi sei e tristezza.
-
QUASIMODO
Profonda la strada
su cui scendeva il vento
certe notti di marzo,
e ci svegliava ignoti,
come la prima volta.
“ Antico inverno “
Desiderio delle tue mani chiare
nella penombra della fiamma :
sapevano di rovere e di rose;
di morte. Antico inverno.
Cercavano il miglio gli uccelli
ed erano subito di neve;
così le parole.
Un po’ di sole, una raggera d’angelo,
e poi la nebbia; e gli alberi,
e noi fatti d’aria al mattino.