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  1. Poco importa come si definirebbe il suo mestiere in modo politically correct. Vivian Mayer è stata una tata. Ma questo, fino a qualche anno fa, non lo sapeva nessuno. E nessuno sapeva neppure che dietro l’apparente modestia di quel lavoro si nascondeva la maestria di una delle più prestigiose fotografe delle ultime generazioni. A raccontarne la storia, riesumandola da bauli impolverati, comprati per un pugno di dollari a un’asta disinteressata, è stato John Maloof che si è lasciato sedurre e incuriosire da quella montagna di scatti, nascosti tra le pieghe di anonime valige, lontani avi dei moderni trolley, mal conservate e appesantite dall’anzianità. Maloof le aveva comprate per passione. Stava scrivendo un libro sul suo quartiere di Chicago e pensava che nel nulla potesse trovarsi un nulla adatto a illustrare qualcosa.

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    Tuffatosi in decine di migliaia di immagini uscite da una Rolleiflex anni Cinquanta, Maloof ne è rimasto estasiato e ha iniziato una ricerca a ritroso. Ma né la Rete del web né altrove si potevano ottenere informazioni su una Vivian Mayer, da tempo defunta. Il bandolo della matassa emerge da un anonimo biglietto su cui era annotato un numero di telefono senza prefisso. Maloof lo ha accoppiato a tutte le combinazioni possibili riuscendo a rintracciare chi gli ha dato le prime conferme. “Era la mia tata”. Da allora ritrovare informazioni più segrete sulla fotografa è stato lungo, ma più semplice, perché ogni testimonianza apriva ad altri apporti. E così su Vivian Mayer è stata fatta completa luce. E oggi perfino un documentario realmente imperdibile per il fascino che esce dalla storia poco nota e da immagini straordinariamente belle, parla di lei dopo che le sue fotografie sono approdate anche al Moma di New York, oltre ad altri prestigiosi musei.

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    Tata, per mantenersi, senza lasciare di sé un ricordo edulcorato, ma spesso facendosi ricordare come donna ombrosa, spigolosa, caratterialmente forte e anche dura, Vivian Mayer ha coltivato una passione, portata avanti con meticolosa costanza e raffinata perizia. La fotografia. Montagne che traslocavano con lei. Di famiglia in famiglia. Di lavoro in lavoro. Ma sempre lo stesso. La bambinaia. Immagini di persone qualunque. Bicromatismo affascinante della quotidianità. Un bianco e nero che si sposa con inquadrature perfette. Vivian Mayer conosce la fama quando ormai è nel numero dei più. Ma la curiosità è che anche per i morti, che nulla hanno più da chiedere ai vivi, è prevista una gavetta e una trafila. Perché Maloof ha chiesto aiuto per la catalogazione a vari archivi e musei, ricevendo regolarmente educati due di picche. Fino al giorno della celebrità. Quando cioè quegli scatti sono diventati l’oggetto del desiderio espositivo.

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    Americana di origini francesi per parte di madre, oggi Vivian Mayer è una tata famosa. Sulla sua vita è stato squarciato il velo del mistero e quella donna che nella sua vita aveva tenuto nascosto migliaia di rullini con milioni di fotografie adesso è una donna pubblica, stimata e applaudita, quanto ignorata in vita. Perfino nel giorno in cui morì. Sola. Su una panchina al parco. Vittima di un accidente. Soccorsa da sconosciuti. Morta da sconosciuta, ma avviata a un futuro da celebrità. Un grande avvenire dietro le spalle, come avrebbe commentato Flaiano. E il film che lo stesso Maloof ha realizzato per raccontare Vivian Mayer è un misto appassionante di poesia ed eleganza. Ha raccontato la propria storia, il regista. Ma allo stesso tempo ha raccontato anche quella di Vivian Mayer, di mestiere tata. Vissuta. Morta. E resuscitata dalle sue stesse fotografie, nascoste in un vecchio baule battuto all’asta come materiale di risulta. Non è la prima volta che da una valigia nasce un film. Forse è la prima volta che da una valigia emerge il genio e il talento di un’eccellente fotografa dei sentimenti e delle sensazioni.